Houston, abbiamo un problema!
A cura di M. Pappagallo
La frase “Houston, abbiamo un problema” che annunciò al mondo il disastro è passata alla storia, ma non molti sanno che non furono queste le parole esatte e che non fu il comandante Jim Lovell a pronunciarle!
Aeroporto George Bush di Houston, Texas. Sono le 18 e 35 del 24 ottobre 2017. Il 25 ottobre, al Royal Sonesta Houston Galleria Hotel, si aprirà la due giorni delle prime 8 metropoli del mondo coinvolte in un ambizioso progetto di salute dei cittadini affidata alle autorità municipali, locali come si direbbe in Italia.
Alla dogana sono l’ultimo di una fila che si esaurisce dopo di me. La guardia mi accoglie con un sorriso formale, in bilico fra la fiducia nel sogno americano e la necessità della war on terror. Non appena vede che sono italiano si rilassa e guarda serenamente il mio passaporto. La guardia, poco più che trentenne, approfitta della mia origine: sua moglie desidera passare una vacanza in Italia, ma non sa esattamente dove. Mi permetto di suggerire: Tuscany, close to the beach. La guardia si esalta, brillano gli occhi e subito chiede se è costoso. Rispondo ni, dipende da zona a zona e, in parte, dal cambio sconveniente. Inavvertitamente ferisco l’orgoglio americano e la nostra conversazione finisce così.
La guardia inserisce i miei dati nel computer e si dimentica le impronte digitali: mi fingo contrariato per la superficialità del controllo doganale e volontariamente appoggio l’indice destro e l’indice sinistro sul lettore delle impronte. Infine, la classica foto. Come è mia abitudine non sorrido. Prassi burocratiche. Rispetto all’Italia, il fuso ci porta 7 ore indietro.
Houston è una città degli Stati Uniti d’America e capoluogo della contea di Harris nello Stato del Texas. Una piccola parte della città si estende nelle contee di Fort Bend e Montgomery. La popolazione era di 2.099.451 abitanti al censimento del 2010, oltre due milioni e mezzo oggi, il che la rende la città più popolosa del Texas e la quarta di tutti gli Stati Uniti. È la principale città dell’ area metropolitana nota come Greater Houston.
Dall’aeroporto si raggiunge Pasadena sulla tollway Sam Houston, la quale porta il nome dell’epico generale che guidò il Texas verso l’indipendenza dal Messico, nel 1836. Sam Houston era ancora in vita quando il suo nome divenne quello della nuova capitale del Texas. Con la stessa sollecitudine i texani di oggi hanno già intitolato l’aeroporto di Houston a George Bush, padre dell’attuale presidente “doppio vu” e figlio del petrolio. Il cielo si rischiara mentre si avvicinano le ciminiere di un’area industriale enorme, venti volte Porto Marghera. Viaggiamo per quaranta miglia fra laghi, boscaglie e tralicci della luce: pali di legno e ammassi di fili inestricabili. Di tanto in tanto spunta un villaggio di casette tutte uguali, sembrano bungalow. E tanti punti di vendita di cibo, di vario genere, a basso costo, quasi sempre del tipo “spazzatura”. Diabete, sovrappeso e obesità sono il simbolo di quell’America Prima tanto cara a Donald Trump e tanto combattuta dalla famiglia Obama. Tant’è, certamente non è nemmeno entro il G20 per quanto riguarda la salute e la longevità in piena qualità di vita.
Il Texas per certi aspetti sembra un enorme campeggio. Da Pasadena a Webster sono altre dieci miglia da percorrere sul West Bay Area Boulevard, che attraversa il muddy lake, nel parco naturale Armand Bayou, e passa accanto al centro della NASA. Non vedo astronauti, ma c’è odore di spazio. E subito ricordo quel “Houston abbiamo un problema”. Quarantotto anni fa, alle 22:08 ora di Houston (le 3:08 del mattino del 14, ora di Greenwich), il mondo iniziò a stare con il fiato sospeso per conoscere il destino di tre astronauti in rotta verso la Luna. Un incidente aveva squassato il loro fragile veicolo spaziale, l’Apollo 13: la rottura per sovrapressione di un serbatoio d’ossigeno li aveva infatti privati di gran parte delle risorse necessarie per sopravvivere, a oltre trecentomila chilometri da casa. Ce la fecero, grazie all’instancabile determinazione dei tecnici sulla Terra, che trasformarono il modulo lunare del veicolo in una scialuppa di salvataggio. Ma non fu una passeggiata: a causa del razionamento dell’acqua, che scarseggiava a bordo dopo le perdite dovute allo scoppio, e a causa dello stress, della paura e del freddo intenso. La frase “Houston, abbiamo un problema” che annunciò al mondo il disastro è passata alla storia, ma non molti sanno che non furono queste le parole esatte e che non fu il comandante Jim Lovell a pronunciarle per primo, ma Jack Swigert, pilota del modulo di comando, che disse “Okay, Houston, we’ve had a problem here”, cioè “OK, Houston, qui abbiamo avuto un problema”. Otto stupefatti secondi più tardi, il Controllo Missione a Houston rispose “This is Houston. Say again, please.” (“Qui Houston, ripetere prego”). Altri sette secondi. Solo allora il comandante Lovell parlò dell’allarme: “Houston, we’ve had a problem” (“Houston, abbiamo avuto un problema”) e iniziò a spiegare i dettagli tecnici dell’avaria.
Siamo al secondo Summit internazionale di Cities Changing Diabetes (#citiessummit17). Il primo è stato a Copenhagen. Roma non c’era.
Nei tre quarti d’ora di tragitto dal George Bush Airport al Royal Sonesta si sfiorano le ferite lasciate dall’uragano Harvey che ha flagellato e paralizzato Houston due mesi orsono. La città trasuda ancora umidità. Soffre umidità.
La tempesta tropicale più potente che abbia colpito il Texas negli ultimi 50 anni ha ucciso almeno 17 persone, costringendo migliaia di altre a sfollare. I danni, ancora evidenti, sono stati stimati in 160 miliardi di dollari. Harvey ha anche colpito circa un quinto della capacità delle raffinerie statunitensi, creando problemi alla fornitura di carburante le settimane successive alla sua furia di acqua e vento. La maggior parte dei danni si sono registrati a Houston, la cui area metropolitana ha un‘economia paragonabile all‘intera Argentina. Il problema Harvey non è soltanto effetto dei mutamenti climatici. Ha a che vedere con le trasformazioni create dall’urbanizzazione. La città di Houston non ha fatto niente di diverso da quello che si fa in Italia un po’ dappertutto: tagliare alberi, fare sparire il verde, cementificare, costruire, intubare i corsi d’acqua, tutte queste cose. Così, di fronte al grande acquazzone che è stato Harvey, l’acqua si è accumulata creando il disastro.
Ma non solo le ferite lasciate da Harvey attirano l’attenzione. Tante auto (spesso una a persona, come i cavalli dei texani di qualche decennio fa), tanti obesi (soprattutto afro-americani), tanto cibo spazzatura, tanti diabetici non ben curati (in parte anche per un sistema sanitario che costa e che non funziona bene se non si ha un’assicurazione o i soldi per pagare). I segni dei cattivi stili di vita appaiono evidenti anche se al Summit Houston si è mostrata consapevole e ha presentato progetti di educazione alimentare scolastici e di promozione dell’attività fisica che stanno migliorando gli indicatori di benessere cittadini. Quindi lo storico appello dell’Apollo 13 dallo spazio si può modificare in “Qui Houston, abbiamo un problema”, riferendosi alla salute dei cittadini texani che popolano questa città. Un problema, però, risolvibile come avvenne 48 anni fa. Con instancabile determinazione.
David Napier, direttore dello Science, Medicine and Social Network dell’University College di Londra, Lars Fruergaard Jorgensen, presidente e Ceo di Novo Nordisk, e Allan Fluvbjerg, Ceo dello Steno Diabetes Center di Copenhagen ci accolgono al Secondo Summit Internazionale Cities Changing Diabetes. Il loro messaggio è forte: “Riducendo il tasso di obesità del 25 per cento entro il 2045 è possibile frenare la crescita del diabete, stabilizzandone la percentuale nella popolazione mondiale al 10 per cento ed evitando oltre 110 milioni di nuovi casi di malattia nei prossimi 25-30 anni, con un risparmio di 200 miliardi di dollari l’anno; inoltre, agendo con particolare attenzione all’obesità infantile, si può invertirne la corsa al disastro”.
Gli esperti di Cities Changing Diabetes hanno individuato nell’obesità la causa più facilmente affrontabile e hanno messo a punto un modello matematico, basato sui numeri esistenti nei database internazionali e in letteratura – il Diabetes Projection Model – che permette di analizzare l’andamento della prevalenza del diabete nel tempo e mostra come riducendo quella dell’obesità sia possibile diminuire il peso del diabete stesso sulla società. Il modello considera due possibili scenari: il primo stima ciò che succederebbe se la crescita dell’obesità continuasse con il trend attuale; il secondo con un intervento che riducesse l’obesità del 25 per cento entro il 2045. A livello mondiale, nel 2045, senza alcun intervento si avrebbe una prevalenza del diabete all’11,7 per cento, con un’impennata rispetto ad oggi di oltre il 25 per cento, che porterebbe a 736 milioni il totale di persone con diabete nel mondo e a quasi un miliardo e mezzo quelle obese. Invece, agendo sulla leva obesità, si produrrebbe la stabilizzazione al 10 per cento della popolazione con diabete, che limiterebbe la sua crescita a 625 milioni considerando l’incremento demografico mondiale.
“Abbiamo lanciato Cities Changing Diabetes nel 2014, con la convinzione che la crescita del diabete non sia inevitabile né inarrestabile”, hanno dichiarato Allan Fluvbjerg, David Napier e Lars Fruergaard Jorgensen, il triunvirato che ha ideato, promosso e sostenuto il programma che, in questi primi 5 anni di vita, ha già coinvolto le Università, le amministrazioni pubbliche, il mondo della ricerca e accademico, la società civile di otto metropoli mondiali: Città del Messico,Copenhagen, Houston, Johannesburg, Shangai, Tianjin, Vancouver e, nel 2017, Roma.
Il 26 ottobre, seconda giornata del Summit, l’Italia è salita in cattedra mostrando come si può fare Rete e lavorare in modo multidisciplinare. Rarità per un Paese dove di norma i personalismi prevalgono sul lavoro di gruppo. Dal nostro Paese sono arrivati a Houston esempi e strumenti concreti per promuovere la fondamentale alleanza tra amministratori, politici, società civile e cittadinanza per prevenire e contrastare il diabete, il sovrappeso, l’obesità. A partire dal buon governo dei corretti stili di vita e dall’agire culturalmente contro una sempre più diffusa sedentarietà.
“Il diabete cresce a ritmo allarmante”
spiega Francesco Dotta, endocrinologia dell’Università di Siena e Coordinatore del Comitato Roma Cities Changing Diabetes Publication Planning. Secondo i dati dell’International Diabetes Federation, la percentuale di popolazione colpita dalla malattia (tecnicamente la prevalenza) nel mondo è quasi raddoppiata dall’inizio degli anni 2000, passando dal 4,6 per cento al 9 per cento del 2017, il che corrisponde a oltre 430 milioni di persone con diabete. L’Organizzazione mondiale della sanità mette in chiaro che il costo umano ed economico dell’avanzata della malattia e delle sue complicanze per gli individui, le loro famiglie e la comunità sono insostenibili”.
“I fattori alla base di questa crescita sono stati chiaramente identificati”
aggiunge Ketty Vaccaro, responsabile area welfare e salute del Censis -. Tra questi annoveriamo l’invecchiamento della popolazione, l’urbanizzazione di quote crescenti di popolazione, le diete poco sane e la sempre più scarsa attività fisica. Su questi fattori di rischio, anche su quelli strutturali e di lunga deriva come invecchiamento ed urbanizzazione, esercitano un forte peso le differenze socio-economiche e culturali.
Prendere in considerazione i determinanti sociali della salute ed agire sulle diseguaglianze è una precondizione essenziale per affrontare condizioni di rischio rilevanti come obesità e sovrappeso e per garantire l’efficacia delle strategie di prevenzione e di gestione del diabete”.
Gli esperti messi all’opera da Cities Changing Diabetes hanno, infatti, individuato nell’obesità la causa più facilmente affrontabile e hanno messo a punto un modello matematico, basato sui dati esistenti nei database internazionali e in letteratura – il Diabetes Projection Model – che permette di analizzare l’andamento della prevalenza del diabete nel tempo e mostra come riducendo quella dell’obesità sia possibile diminuire il peso del diabete stesso sulla società, in termini di costi sociali ed economici. Importante l’impatto economico. Il modello calcola che a livello mondiale, senza alcun intervento, i costi annuali del diabete salirebbero dai 775 miliardi di dollari attuali a oltre 1.000 miliardi nel 2045. Invece, limitando la prevalenza del diabete al 10 per cento, si otterrebbe un risparmio di 200 miliardi di dollari l’anno.
Questo obiettivo è pienamente raggiungibile sostiene Napier. Avrebbe un impatto significativo sulla salute e il benessere di decine di milioni di persone, allo stesso tempo alleviando la pressione che grava su sistemi sanitari già ampiamente sotto stress.”
Per raggiungerlo è però necessario che si uniscano le forze. “Nelle città in cui è attivo, Cities Changing Diabetes ha già dimostrato la forza dei progetti di collaborazione pubblico-privato, mobilitando per questa causa comune partner delle più diverse estrazioni”, aggiunge Flyvbierg.
Sfide tanto importanti richiedono una vera e propria alleanza tra tutti gli interlocutori che possono e devono avere un ruolo: amministratori locali, organizzazioni civiche, soggetti del mondo delle istituzioni e della scienza. Passano, inoltre, attraverso un coinvolgimento attivo dei cittadini, un investimento sull’empowerment che porti a maggiore consapevolezza sui corretti stili di vita, che aiutano a prevenire e a gestire il diabete – commenta Antonio Gaudioso, Segretario generale di Cittadinanzattiva -. Avere città ‘in salute’, dove i servizi sociali, sanitari, del trasporto pubblico, del tempo libero e dello sport siano pensati a ‘misura di cittadino’ è il miglior investimento che possiamo fare per la salute presente e futura”.
Il Diabetes Projection Model, come altri strumenti di analisi e valutazione realizzati per il programma Cities Changing Diabetes, “sono a disposizione di ogni amministrazione cittadina voglia impegnarsi attivamente in questo sforzo con proprie iniziative e contribuire, tutti insieme, a frenare la corsa del diabete.
“La pandemia urbana del diabete pone una grande sfida alle città del mondo, che è possibile affrontare uniti, agendo sul più grande fattore di rischio modificabile per il diabete: l’obesità”
conclude Fruergaard Jorgensen.
La delegazione italiana ha presentato a Houston il parere adottato a Bruxelles dal Comitato Europeo delle Regioni per richiamare l’attenzione della Commissione Europea e degli organismi internazionali sul tema della salute nelle città.
Il documento è stato approvato dall’assemblea dei rappresentanti regionali e locali dell’Unione Europea, su proposta del gruppo italiano, guidato da Enzo Bianco, presidente del Consiglio Nazionale dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) e Sindaco di Catania. Una concreta azione politica made in Italy. Anzi made in ANCI.
Il parere, votato a larga maggioranza, si propone l’obiettivo di promuovere la salute nelle città per migliorare la qualità della vita dei cittadini dell’Unione europea spiega Roberto Pella, Sindaco di Valdengo (Biella) e Vicepresidente vicario ANCI, che ne è stato anche relatore a Bruxelles – e discende dalle numerose iniziative intraprese in Italia per affrontare il crescente fenomeno dell’urbanizzazione e delle relative problematiche di salute che lo stesso fenomeno comporta.
Andrea Lenzi, Coordinatore di Health City Institute e Presidente del Comitato per la biosicurezza e le biotecnologie della Presidenza del consiglio dei ministri, è la voce della scienza insieme a Dotta nella delegazione italiana a Houston: “Nel 2010, per la prima volta nella storia, è stato osservato che più di metà della popolazione mondiale risiedeva in città e che nel 2050 la stima della popolazione urbana attestava il dato al 70%. Se guardiamo al nostro Paese, notiamo che
più di un italiano su 3 (il 37 per cento) vive oggi nelle 14 città metropolitane
Come corollario, riscontriamo una crescita delle malattie croniche non trasmissibili, come diabete e obesità, che sono fortemente legate ai profondi cambiamenti di stile di vita che tutto ciò comporta nelle popolazioni”.
“In Europa – riprende Pella – si ha anche, in linea con l’aumento della aspettativa di vita, la tendenza a un incremento delle classi di età più anziane, e
il combinato di invecchiamento della popolazione e impennata delle malattie croniche genera la parte più consistente dei costi dei sistemi di protezione sanitaria,
e il problema della sempre più complessa sostenibilità dei sistemi di welfare e sanitari. Per queste ragioni, ci è parso di fondamentale rilevanza, e urgenza, accendere il dibattito politico europeo, che molta parte ha nella determinazione e nell’orientamento delle politiche pubbliche, sull’analisi dei contesti sociali e ambientali, dei bisogni emergenti, degli stili di vita e delle aspettative del cittadino”.
Il parere del Comitato delle Regioni, dal titolo “La salute nelle città: bene comune”, formula una serie di raccomandazioni relative a settori di intervento politico prioritario quali la progettazione urbana, la mobilità, l’ambiente e un’alimentazione sana, l’istruzione, lo sport e la governance delle città. “Prende spunto dall’omonimo Manifesto che Health City Institute, un organismo che si avvale di esperti indicati, tra gli altri, da Ministero della salute, Istituto superiore di sanità, Università di Roma Tor Vergata, Istat e Censis, ha messo a punto in Italia nel 2016 e che delinea gli elementi chiave che possono guidare le città a studiare ed approfondire i determinanti della salute nei propri contesti e a fare leva su di essi per definire strategie tese a migliorare gli stili di vita e il benessere psico-fisico del cittadino”, precisa Stefano da Empoli, presidente I-Com e vicepresidente Health City Institute.
Ogni punto del Manifesto – che è stato illustrato al summit di Houston da Andrea Lenzi, riscuotendo un grande successo a livello internazionale – contiene le azioni prioritarie per il raggiungimento di questo obiettivo, promuovendo partenariati pubblico–privato per l’attuazione di progetti di studio.
Alla base 10 principi-obiettivo, che danno un’idea della complessità delle sfide per le città e i loro amministratori, nella consapevolezza che possano essere vinte solo se si mettono al lavoro le migliori intelligenze disponibili a livello nazionale e locale nelle tante discipline interessate.
10 principi-obiettivo che il mondo delle 8 città-lab ci invidia e che sarà di ispirazione anche per le loro scelte future:
- Ogni cittadino ha diritto ad una vita sana ed integrata nel proprio contesto urbano. Bisogna rendere la salute dei cittadini il fulcro di tutte le politiche urbane
- Assicurare un alto livello di alfabetizzazione ed informazione sanitaria per tutti i cittadini, aumentando il grado di autoconsapevolezza
- Inserire l’educazione sanitaria in tutti i programmi scolastici, con particolare riferimento ai rischi per la salute nel contesto urbano
- Incoraggiare stili di vita sani nei luoghi di lavoro, nelle grandi comunità e nelle famiglie
- Promuovere una cultura alimentare appropriata attraverso programmi dietetici mirati, prevenendo l’obesità
- Ampliare e migliorare l’accesso alle pratiche sportive e motorie per tutti i cittadini incentivando la creazione e il pieno utilizzo di infrastrutture sportive e spazi verdi
- Sviluppare politiche locali di trasporto urbano orientate alla sostenibilità ambientale e alla creazione di una vita salutare
- Creare iniziative locali per promuovere l’adesione dei cittadini ai programmi di prevenzione primaria, con particolare riferimento alle malattie croniche, trasmissibili e non trasmissibili
- Considerare la salute delle fasce più deboli e a rischio quale priorità per l’inclusione sociale nel contesto urbano
- Studiare e monitorare a livello urbano i determinanti della salute dei cittadini, attraverso una forte alleanza tra Comuni, Università, Aziende sanitarie, Centri di ricerca, industria e professionisti